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Mi sveglio all’improvviso per un tuono. Non so che ore sono, mi siedo sul letto. Il tuono non smette, è lungo e fa un rumore fortissimo. Trema tutto. Come fai a capire che trema tutto quando c’è buio, mi son sempre chiesto quando mi hanno raccontato dei terremoti? Ora lo so.
Merda!
Dico forte, e non so che altro fare, cos’altro dire. Merda, merda, merda, dico continuamente io che raramente utilizzo questo vocabolo. Non riesco ad alzarmi a gridare, non riesco a correre sotto un tavolo, come attratto da un macigno che mi tiene inchiodato a guardare il vuoto ascoltando il frastuono agghiacciante da un intorno a me indefinito. Attonito, immobile. Per istinto ti prendo per mano ma non dici niente, non capisco se hai paura ma voglio farti coraggio, o voglio cercare qualcuno da stringere forte finchè tutto non sarà finito. Però non finisce in fretta, saranno passati minuti interi nella mia testa invece che una ventina di secondi nel mondo reale. Fai in tempo a pensare un sacco di cose in venti secondi, ed è esattamente il mio incubo peggiore, quando ti restano pochi secondi di vita e non sai cosa fare se non pensare a mille cose inutili e sciocche.
Penso al tetto che ora crolla, ci crollerà in testa da un momento all’altro perché la scossa è troppo forte e siamo all’ultimo piano, e finiremo sul piano sotto e quello sotto su quello sotto ancora, come nei fumetti, dove si alza la nuvola di polvere e alla fine c’è un cumulo di macerie e noi due sul letto in cima ai detriti con i cerotti in testa e le bruciature sulle guance. Saremo precipitati insieme, in silenzio, con la mano destra stretta forte nella tua e la sinistra premuta contro la libreria perché non ci cada addosso.
A quasi ventinove anni per la prima volta in vita mia ho creduto di morire, e rassegnato al mio destino ho atteso senza fare nulla che tutto si compisse tenendoti per mano. Come se andarsene in quel modo alla fine fosse bellissimo e giusto. Come se nel momento tragico la pillola fosse meno amara se presa in buona compagnia. Non è forse questo il senso di tutto alla fine? Tenersi per mano, aver vicino le persone care quando capita qualcosa di brutto. Non essere soli. Poi vada come vada, in fondo non lo decidiamo noi.
Quando tutto finisce sembra un film di JJ Abrams, con la telecamera girata a mano e scene concitate nella penombra della luna che filtra dalle tapparelle abbassate. Non si possono aprire, sono elettriche ed è saltata la luce. Uso l’iPhone per farmi luce, tiro su l’orologio a pendolo caduto, sistemo il computer con lo schermo enorme di vetro che incredibilmente si è piegato fino ad un pelo dal crollare distruggendosi, accendo il cellulare per chiamare i familiari ma le linee sono intasate. Vado su Repubblica e INGV dal cellulare a leggere notizie di quanto è successo ma sono intasati e non si aprono. Appena due minuti dopo la scossa, invece di uscire in strada e mettermi al sicuro, sono ancora dentro casa che tergiverso e voglio sapere, capire cosa è successo. So che quando aprirò le tapparelle perché sarà tornata la luce troverò uno scenario infernale: case crollate, cumuli di macerie. Il mio pessimismo a volte dipinge scenari catastrofici e forse è un bene che non si possa aprire per vedere l’accaduto.
Usciamo di casa con straordinaria lentezza, radunando le cose importanti da salvare in uno zaino, vestendoci con le uniche cose a portata di mano: abiti da cerimonia di un matrimonio di un amico la sera precedente. E così eleganti vaghiamo storditi per i corridoi, diamo sostegno all’anziana vicina di casa con i ninnoli di porcellana rovinati a terra, consoliamo una giovane donna in lacrime con i gatti impazziti, scendiamo in strada come due alieni in mezzo a pigiami imbarazzanti, coperte di lana, cellulari intasati. Ovunque intorno gente che gira impazzita, sirene, macchine, persone in bici e il sottoscritto in giacca e scarpe con i tacchi che attraversa la città per andare a controllare come sta la nonna che soffre di cuore, ma che ha fatto la guerra e non si fa certo intimidire da una scossetta come suo nipote che in vita sua ha visto solo l’avvento dei computer, e di internet, ma non sa come sono fatti i bunker, non sa cosa vuol dire avere paura, perdere tutto, stringere la cinghia.
Lungo il corso principale della città ci sono macchine schiacciate da capitelli e calcinacci, aree transennate, vigili del fuoco già all’opera. Nel tempo in cui mi infilavo due calzini e un completo elegante la macchina organizzativa era già ampiamente in moto, twitter era già pieno di racconti da ogni dove, le agenzie battevano notizie in rapida successione e la gente per strada raccontava cose a vanvera con il passaparola che ingigantisce sempre tutto. Qualcuno dice che ci sono crolli in centro, molti morti, qualcuno che è niente in confronto al Friuli, qualcuno che sono crollati i ponti e non si può raggiungere certi paesi verso Bologna, qualcuno giura che ad un certo punto ha segnato anche Zoff, di testa su calcio d’angolo.