15 Aprile 2015

Sono stato al nuovo CUP in Corso Giovecca e non crederete a cosa ho visto!

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Tranquilli non è un articolo di qualche testata di gossip online con il titolo ammiccante solo per acchiappare clic: non è successo nulla di strano, nulla di insolito quantomeno per le persone che hanno qualche anno sulle spalle più del sottoscritto.
Ma andiamo con ordine. Qualche giorno fa sono andato ad una visita medica di controllo nel vecchio ospedale Sant’Anna, quel posto che tutti abbiamo frequentato fino a pochi anni fa quando siamo stati più o meno male, o quando lo è stato un parente o un amico, prima dello spostamento tanto odiato alla struttura di Cona. Che meraviglia rivedere il portale di ingresso monumentale, che silenzio e che facilità muoversi all’interno dell’anello: puoi andare a sinistra e puoi andare a destra, niente codici strani 2B1, 3A2 come al nuovo ospedale dove il traffico maggiore lo trovi in ascensore ed è composto da gente che ha sbagliato piano, settore e reparto.

Le vecchie insegne, i nomi dei primari scritti ancora sulle vetrate all’ingresso dei reparti dagli anni Sessanta, il pavimento rappezzato così tante volte che sembra un puzzle azzurro, i quadri visti mille volte della collezione Melotti, l’edicola che ha cambiato ancora posto. È come se avesse riaperto il tuo ospedale, come se qui ritrovassi tutti quei medici che hai sempre conosciuto, quei corridoi e quelle scale che sai dove portano perché ci sono sempre stati, mentre quando ti perdi per i reparti di Cona ti senti ospite di un altro ospedale, di un’altra città. Passerà anche questa sensazione negli anni, credo.
Così ho trovato in un minuto l’ambulatorio, ho fatto la visita che richiedeva in seguito la prenotazione di un esame specialistico. Facile – ho pensato – hanno spostato da pochi giorni il nuovo centro prenotazioni proprio qui dentro: non devo nemmeno andare in via Cassoli.
L’ingresso nel nuovo CUP avviene dal corridoio principale, al settore numero 4, c’è qualche sparuta cartellonistica che annuncia la novità, entrando sembra quasi di aver sbagliato area se non fosse per il vociare della gente e un po’ di coda in piedi. Ho preso il cartellino con il numero accedendo alla sala d’aspetto. È grande come quella di prima, forse qualcosa in meno addirittura: file di sedie rivolte verso il varco di accesso ad una seconda ampia stanza con gli sportelli. Pareti disadorne, nessun’altra indicazione se non il display con i numeri e i codici colorati ad annunciare il prossimo turno. È qui che ho fatto caso ad una cosa bellissima.
Le persone in attesa alzano il naso all’insù con un sincronismo perfetto, ad ogni beep che annuncia un nuovo turno. Anche se hanno il numero 200 e hanno appena chiamato il 53 alzano comunque lo sguardo per vedere a che punto siamo, e lo rialzano quando chiamano il 54, il 55, pur sapendo che non li riguarda. Non c’è altro da guardare, nessuna tv che trasmette informazioni, programmi di intrattenimento, niente radio. Attendere al CUP è pura noia se non si è attrezzati con un giornale, un libro, un po’ di musica. La maggioranza delle persone in coda sono ovviamente anziani, c’è qualche mamma che ha chiesto un permesso al lavoro, qualcuna direttamente in maternità, io poco più che trentenne sono tra le persone più giovani presenti. Sapete cosa fanno le persone adulte ed anziane quando sono in una sala d’aspetto? Socializzano, chiacchierano. Parecchio anche.
Incredibile, no? Parlano tra di loro, del numero 53 che hanno appena chiamato eppure sono-qui-da-ore-non-si-può-andare-avanti-così, parlano del clima, che è venuto caldo tutto all’improvviso, di quale acciacco sono venuti a controllare questa volta, dei referti, dei pareri medici, della politica e del costo della verdura. È un piccolo salotto, come lo è il mercato, un bar del centro, la piazza, qui si tasta il polso della gente, si capisce cosa ne pensa di qualunque argomento, si fa amicizia persino. Perfetti sconosciuti si raccontano informazioni non richieste per il puro scopo di socializzare e passare il tempo, con quella sintonia che spesso trovano le persone nei momenti di difficoltà.
Strano – ho pensato – nessuno con lo smartphone acceso a controllare Facebook, a giocare a Candy Crush, nessuno interessato agli ultimi tweet degli assessori Modonesi e Maisto, che mettesse un mi piace all’ultima foto instagram di #myferrara, nessuno con il naso all’ingiù a mandare messaggi inutili a qualcuno che non fosse fisicamente presente in quella stanza. La nostra generazione di isolati avrebbe al più scambiato una parola con uno dei presenti per chiedere la password del wifi ospedaliero, e potersi così connettere al più presto ad internet, mendicando un nuovo aggiornamento di stato di qualche amico per ingannare l’attesa.
Tra vent’anni, quando ci saremo solo noi chini sui nostri device in quella stanza del CUP e avremo disimparato completamente a socializzare se non tramite faccine e dichiarazioni a nostro avviso interessantissime rilasciate in rete, ci sarà solo un grande e freddissimo silenzio scandito da qualche bip. Hanno chiamato il 54, tocca a te, dirà una graffetta sorridente sul display del nostro orologio.