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Lola Bonora è una sorta di istituzione culturale di questa città, un gigante dei nostri tempi nonostante la sua statura minuta e il fisico asciutto. Esaurite le consuete visite ai monumenti più conosciuti, turisti e cittadini dovrebbero poter scambiare due parole con le persone che hanno reso grande Ferrara per coglierne meglio le sfumature.
Conoscere il passato per capire il presente si dice, no? Lola, che ha da pochi giorni compiuto i suoi primi 80 anni, è una di queste persone: si è occupata di sperimentazioni artistiche, di musica, di teatro, ha portato innovazione e creatività in una città di provincia quando internet non esisteva, costruendo un ponte immaginario tra l’Emilia e l’America. Caschetto biondissimo, energia frenetica che la contraddistingue da sempre, quasi contagiosa, un sorriso e un’eleganza che porta con disinvoltura senza mai apparire sofisticata, ricercata e snob nonostante un curriculum lungo e pieno di meriti.
Conosco Lola da molti anni ma quando decido di andarla a trovare per ripercorrere insieme la sua lunga storia professionale è come se per la prima volta decidessi di scoprire tante di quelle meraviglie appese alle pareti del suo attico un po’ newyorchese. Come se cercassi finalmente di ricostruire i tanti tasselli ascoltati in giro collocandoli al loro posto nel tempo. E con ottant’anni vissuti così intensamente non è certo facile farlo.
“Tutto è iniziato a teatro, credo fosse il 1968. Recitavo allo Stabile di Bologna.”
Hai studiato recitazione?
Macchè. Per entrare allo Stabile ho fatto un’audizione. Ho portato una poesia di Edgar Lee Masters e a giudicarmi c’era il mio mito di sempre, l’attore Giancarlo Sbragia, quindi ero così emozionata che non riuscivo nemmeno a parlare. Invece di scartarmi mi hanno fatto uscire e rientrare quando sarei stata pronta. È andata bene e da quel momento sono diventata professionista.
Avevi già completato gli studi?
Quello che so l’ho imparato a teatro. Ho avuto vicende scolastiche disastrose: sono nata nel 1935 e anche a causa della guerra non ho fatto quasi le scuole, prendendo lezioni dal Maestro Calessi, un socialista. Mio padre non voleva mandarmi alle elementari in divisa come tutti gli altri ma nessuno è mai venuto a casa a cercarmi per questo.
Alle medie ci sono poi andata, ma faticavo in materie scientifiche come matematica. Una volta sono riuscita a consegnare un compito correttamente, l’insegnante ritenne che evidentemente l’avessi copiato. Ci rimasi male. Chiesi di andare in bagno e fuori dall’aula trovai il cappotto e il cappello dell’insegnante, elegante e con il velo. Lo pestai fino a farlo diventare poltiglia.
Non fu difficile capire chi era stato…
L’insegnante intuito l’accaduto andò dal preside, che per giorni mi convocò cercando di farmi svelare il misfatto pur non avendo prova, ma ho sempre negato tutto… Ero già un’attrice! Poi ho proseguito gli studi per i fatti miei, senza avere diplomi o lauree. Ho imparato davvero molto a teatro, dove ho letto i classici russi, quelli inglesi o le opere di Pirandello, che mi hanno aperto la mente.
Ti piaceva recitare a teatro?
Le tournée teatrali erano impegnative: alberghi diversi ogni giorno, andare a cena tardi, dormire poco… era una vita faticosa, il motivo per il quale ho abbandonato la recitazione. Era una carovana continua… molti colleghi erano entusiasti proprio di questo aspetto, io no.
Hai fatto però in tempo ad affacciarti nel mondo del cinema, con i primi film del giovane Pupi Avati.
Ho recitato in due tra i primissimi suoi lungometraggi: “Balsamus l’uomo di Satana” del 1970 e “Thomas e gli indemoniati“ dello stesso anno. Era un esordiente, prendeva persone con poca esperienza e il budget a disposizione era molto basso. In un caso ero coprotagonista, nell’altro impersonavo una moglie, mio marito sul set era Edmund Purdom, un attore americano ormai sul viale del tramonto. Ricordo che mi fece scoprire il Polase, un integratore ormai diffusissimo, ci aiutava a tenere botta fino a tardi recitando ore ed ore. Abbiamo girato prevalentemente nelle colline bolognesi, in un caso anche a Ferrara, al vecchio lazzaretto in fondo a via Mortara.
Questi film non girarono molto al cinema, trovi più facilmente traccia dei “Fratelli Karamazov”, e del “Mulino del Po”, di Sandro Bolchi, nei quali ho preso parte come attrice prima di chiudere quest’esperienza. Avevo voglia di fare qualcosa di mio, libero da copioni, qualcosa di artistico…
Mia sorella Paola è una pittrice, mio fratello Maurizio uno scultore, era inevitabile… All’epoca mio marito Franco Farina era già direttore di Palazzo dei Diamanti: venivo in contatto con tantissime persone che si muovevano nel mondo dell’arte.
Quando hai conosciuto Franco?
Ero giovanissima, a 15 anni. Volevo essere già grande, avere la mia libertà… non sapevo mica cosa farmene, sai? Ma ci tenevo. Franco era stato per un periodo segretario dell’Istituto Gramsci e scriveva come corrispondente per Italia Nostra. Non si occupava di arte anche se era una persona sensibile all’argomento. L’allora direttore di Palazzo Diamanti, Gualtiero Medri, lo volle come segretario facendogli sistemare vecchie raccolte, il lavoro che ha fatto gli è servito come palestra e per studiare molto in campo artistico. La sua prima mostra fu quella su Boldini, allestita a Casa Romei nel 1963. L’aveva trasformata in un museo dell’Ottocento, quasi una casa dell’epoca… un allestimento scenografico inusuale, un vero e proprio set cinematografico.
I tuoi genitori erano artisti?
Mio padre in fondo lo era… era un abile artigiano, una delle sue opere in metallo è esposta al Museo dell’Artigianato di Firenze. Abitavamo nella casa di Biagio Rossetti in via XX settembre e lui aveva il laboratorio subito dietro.
Quando è stato il tuo battesimo nel mondo dell’arte?
Ho lavorato all’assessorato alla cultura in Provincia inizialmente, ma anche in Comune. Quando sono nate le Regioni nel 1970 ho chiesto di essere trasferita. Il Presidente era Guido Fanti, del PCI. Io ero un po’ anomala: sono sempre stata di sinistra ma adoravo l’America, il jazz, criticavo l’Unione Sovietica e venivo quindi vista con sospetto. Simpatica, ma per molti versi non allineata.
Di cosa ti occupavi in Regione?
Lavorando a Bologna successe una cosa importante: vollero realizzare una televisione locale cablando la città. Il Presidente chiamò Roberto Faenza, da poco tornato dagli USA, che aveva lavorato con la nuova telecamera Portapak. Una rivoluzione portatile in un’epoca in cui le telecamere erano pesantissime e costose. A Berkeley in California gli studenti le usavano a tracolla filmando la polizia durante manifestazioni, riprendendo in diretta cosa accadeva, come ora fanno i ragazzi con il cellulare.
Quella tv non nacque mai, rimasero esperimenti, anche perché in breve il Presidente Fanti venne eletto in Senato e la nostra “banda dei quattro” finì nel dimenticatoio. Nel frattempo un tecnico americano collaboratore di Faenza che organizzava dei corsi di ripresa e montaggio, aperti al pubblico, ci aprì gli occhi davanti alle potenzialità di questi nuovi mezzi.
Carlo Ansaloni, che con me ha lavorato per anni al successivo Centro Video Arte, si impadronì della tecnica necessaria nel nostro lavoro. Da New York arrivavano notizie di artisti che già operavano nel campo della cosiddetta “videoarte” e quei corsi furono lo stimolo giusto: toccava noi mettere a frutto queste conoscenze per fare qualcosa anche a Ferrara.
In Italia all’epoca eravate i primi ad interessarvi di videoarte?
Due nomi girarono inizialmente come padri di questa disciplina artistica: Nam June Paik, coreano e Wolf Vostell, tedesco. Entrambi se ne sono attribuiti la paternità per anni ed abbiamo lavorato con entrambi. Franco Farina ci lasciò da subito un piccolo spazio al piano terra di Palazzo dei Diamanti credendo in noi dandoci un anno di tempo. Comprammo qualche strumento essenziale con i pochi fondi a disposizione, il resto andavamo a farlo a Bologna di notte in uno studio di amici affittato. Era il 1972.
Il primo artista che si presentò con il suo storyboard per fare un video è stato Fabrizio Plessi, oggi forse l’artista italiano più noto nel campo della videoarte, ma all’epoca esordiente in materia. Vincemmo con lui il primo premio al Festival Internazionale del Film sull’Arte di Asolo. L’attività del Centro Video Arte andò avanti con passione fino al 1994, quando il nuovo direttore non ritenendo interessante il progetto lo mise da parte.
Nel frattempo nel 1977 inaugura nel parco di Palazzo Massari la Sala Polivalente. Un teatro sperimentale tutto di legno, forse il luogo naturale dove dar vita agli stimoli che il Centro Video Arte raccoglieva fuori città per portarli all’attenzione dei ferraresi.
Venne aperta dal Comune, su richiesta di Franco Farina, la dirigevo io e andò avanti in parallelo al Centro sempre fino al 1994, quando venne smantellato per diventare un deposito per le opere d’arte. Le due strutture nel giardino di Palazzo massari nacquero per ospitare oltre alla sala polivalente anche un Padiglione per l’Arte Contemporanea (PAC). In diciassette anni sono venuti musicisti da ogni parte del mondo, organizzavamo reading, conferenze, proiezioni…
Di gente ne veniva?
La prima sera che abbiamo aperto eravamo in sette, l’artista poteva quasi portarci a cena tutti! Poi negli anni il pubblico è cresciuto, fino al tutto esaurito. Devi far capire al pubblico dove lo vuoi portare, cosa vuoi fargli vedere, quali informazioni dargli. Solo così si affeziona e sente suo il luogo. Peraltro l’ingresso era gratuito, oggi sarebbe quasi impossibile farcela con le spese.
La Ferrara degli anni Settanta era più attenta alle provocazioni e agli stimoli artistici che proponevate secondo te?
A livello qualitativo forse la cultura segue un po’ i tempi in cui viviamo, negli anni Settanta era più semplice lavorare in questo campo perché l’intera città collaborava per aiutarti. C’era più interesse da parte delle istituzioni e della gente, che era più curiosa e con maggiore spirito critico. Oggi siamo tutti più distratti, la rete ci porta a vedere tutto, ad aver già visto tutto, niente ci appare veramente nuovo.
Tutto il materiale prodotto, l’archivio di vent’anni di attività tra il Centro Video Arte e la Polivalente oggi dove si trova? Dove ne troveranno traccia le nuove generazioni?
Da quando si è chiusa l’esperienza della Polivalente l’archivio è rimasto di proprietà della Galleria e tutto il materiale del Centro Video Arte è attualmente in restauro all’Università di Gorizia. Ne han fatto richiesta con grande interesse qualche anno fa, hanno un laboratorio all’avanguardia ed hanno già restaurato l’archivio della Biennale di Venezia.
Successivamente a queste esperienze ti sei occupata della Biennale Donna.
La Biennale Donna nasce nel 1984 come momento espositivo artistico che intende abbracciare varie espressioni dell’arte femminile per valorizzare e sottolineare l’indiscusso valore di donne artiste. Era una realtà già esistente quando ho iniziato ad interessarmene ma con un taglio diverso, più legato al Novecento. Pensa che ero quasi contro l’idea di chiamarla “Biennale donna”, mi sembra di ripetere lo stesso ghetto di mostre di sole donne, un po’ come il concetto di “quote rosa”… umiliante. Nessuno organizza mostre di soli uomini o dovrebbe far caso se in un’esposizione ci sono solo artiste e non artisti, che importanza ha in termini puramente artistici?
Ho curato negli ultimi anni alcune edizioni da sola, altre con Silvia Cirelli. La prossima potrebbe vedere la disponibilità del PAC, che non è stato seriamente danneggiato dal terremoto ma l’area di Palazzo Massari dove è situato è ancora inagibile. La primavera del 2016 potrebbe essere la volta buona.
In tutto questo hai avuto persino tempo per essere qualche anno Presidente del Jazz Club.
È stata una bellissima esperienza per un’appassionata di questa musica come me. Quando direttore era Alessandro Mistri, cui poi è succeduto l’attuale Francesco Bettini, un mio orgoglio personale è stato quello di riuscire ad ottenere la sede attuale del Torrione. La volevano in tanti, persino gli arcieri… Il Comune in questo è stato lungimirante e sensibile e gli architetti han fatto un ottimo lavoro nel restauro. Era abbandonato e fatiscente, non aveva i due piani e non c’era nemmeno la scala esterna… Oggi vince ogni anno il premio come miglior Club d’Italia, ne sono davvero soddisfatta.
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Ad ottant’anni l’energia di Lola e l’entusiasmo nel raccontare progetti passati e futuri lascia capire che non è certo ancora il momento per lei di andare in pensione. Quando la mente rimane giovane e creativa, quando la si lascia libera di creare e seguire percorsi che fanno stare bene, un corpo che invecchia è solo un effetto collaterale, un involucro da portare in giro per poter essere davvero quelli che vogliamo essere. Il corpo faccia quello che vuole, diceva Rita Levi Montalcini, io sono la mente.