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La domanda più in voga in questi giorni di novembre caldo e nebbioso, quando raccontiamo ad amici e parenti di aver già visitato a Palazzo dei Diamanti la mostra “De Chirico a Ferrara” è all’incirca questa: è bella? Merita?
Il che è sintomo di interesse per nulla scontato se pensate che per molti il principale cruccio di questi giorni era conoscere o divulgare il percorso che avrebbe fatto il presidente Mattarella per venire ad inaugurarla, per poterlo così vedere da vicino. Cosa avrà mangiato al ristorante? Chi c’era con lui? A che ora riparte? Accetta i selfie?
Ma al povero Giorgio De Chirico chi ci pensa? La mostra in fondo riguarda prima di tutto la sua opera, dovremmo rivolgere le nostre attenzioni alla sua pittura, al messaggio universale che da cent’anni i suoi quadri tramandano, piuttosto che riempirci la bocca di metafisica a tutti i costi quando forse nemmeno ne conosciamo il significato.
Dice: insomma, quindi è bella la mostra? Se hai proprio fretta ti dico di si, ma poi ci arriviamo. Lascia che ti dica qualcosa in più per inquadrare l’argomento, poi deciderai tu cosa fare.
DE CHIRICO NON È FERRARESE – Pensa che De Chirico non è nemmeno ferrarese, scommetto che ci avevi creduto anche tu: il castello estense, le muse inquietanti, quelle cose lì, la metafisica è nata a Ferrara, siamo la città metafisica per eccellenza e bla bla bla…
Invece è di origine greche, nasce in Tessaglia a Volo, non arriva a Ferrara per una scelta precisa ma come spesso accade nella vita per circostanze imprevedibili e casuali. Quando l’Italia partecipa al primo conflitto mondiale, insieme al fratello Alberto Savinio lascia Parigi per arruolarsi. Alla fine di giugno del 1915 eccoli qui, assegnati al 27° reggimento di fanteria di Ferrara. Dice: perché si chiama Savinio se è il fratello di De Chirico? Perché proprio in quel periodo inizia a farsi chiamare con questo pseudonimo: è un’artista anche lui, noto musicista e scrittore. Tutti artisti in famiglia? No, il padre era un ingegnere ferroviario, ma non divaghiamo.
Fatto sta che il soggiorno nella città emiliana determina in lui cambiamenti profondi nei temi ispiratori dei suoi quadri. Subisce l’ambiente emiliano e lo rielabora: quando arriva a Ferrara non ha davvero idea di cosa lo attenda. Mentre a Parigi i quadri sono ambientati in esterni ampi e luminosi, al contrario qui raccontano gli interni, gli uffici militari che frequenta dove trova psicologicamente protezione.
ITALIANO, MA GRAZIE A CARLO ALBERTO – Quindi De Chirico è italiano, si arruola in nome della patria italiana?
Questa è una storia interessante. Nella seconda sala della mostra a Palazzo dei Diamanti è presente il piccolo quadro “I giochi del principe”, ultimo omaggio di De Chirico al re Carlo Alberto. Perché un omaggio? La famiglia De Chirico veniva dalla Dalmazia, erano stati ambasciatori a Costantinopoli della Repubblica di Ragusa (l’attuale Dubrovnick), il bisnonno del pittore era esponente di spicco della cosiddetta Nazione Levantina di Costantinopoli, un vero e proprio stato nello stato, una comunità di origini italiane nel territorio turco.
Quando quest’ultima viene cancellata nel 1815 con il trattato di Vienna, resta in un primo tempo senza lavoro ma scrive a Vittorio Emanuele I offrendogli i propri servigi per aprire una delegazione sarda a Costantinopoli.
La famiglia De Chirico diventa così fondamentale per le relazioni diplomatiche con l’Impero Ottomano e quando nel 1836 il bisnonno viene messo a riposo con onorificenza da Carlo Alberto, viene stabilito per legge che i suoi discendenti acquistassero la cittadinanza italiana, incluso ovviamente Giorgio, che sentitamente ringrazia, omaggia, tributa. Fai caso ad alcune cartine geografiche presenti in altre opere, tutto torna.
COME SI È TROVATO A FERRARA? – Parliamoci chiaro, De Chirico passava le giornate per caserme, potrebbe forse sembrarti poco edificante. Gli interni ferraresi da lui ritratti non vanno intesi però come claustrofobici quanto più come protettivi verso il mondo esterno. C’era la guerra, ricordi? Le stanze dipinte da De Chirico vedono al loro interno agglomerati dalle forme curiose ma irreali, una sorta di “pittura-scultura” che anticiperà temi cari ai dadaisti. La guerra era il massimo segno dell’illogicità del mondo, della follia dell’uomo.
“La pittura deve rappresentare quella grande pazzia che esiste e esisterà sempre, e continuerà a gesticolare e a fare dei segni dietro il paravento inesorabile della materia.”
G. De Chirico, 1918
LA CIUPETA E I DOLCI – Va anche detto che era un golosone, il nostro Giorgio. Ad andarsene in giro per le vie del centro guardando le vetrine di eleganti pasticcerie qualche chilo finisci per prenderlo, nonostante i problemi intestinali che lo hanno afflitto per molti anni costringendolo ad una certa moderazione. Ecco spiegata la presenza del pane ferrarese o dei biscotti dalla forma allungata accostati ad oggetti di uso comune in alcune composizioni di quegli anni, dai significati complessi e sofisticati.
Ferrara esercita in generale un fascino particolare sul giovane De Chirico, che resta catturato dal ghetto ebraico, dall’astrologia di Palazzo Schifanoia e dalla sintesi di esoterismo e culture mediterranee così radicate in città. Ferrara lo fa riflettere non poco.
QUADRI CHE CONTENGONO ALTRI QUADRI – Si divertiva, il nostro De Chirico, a sparigliare le carte sui massimi sistemi. Come nelle tele dove un quadro era contenuto nel quadro. L’hai già visto sicuramente nelle opere di Magritte ma lui c’è arrivato dopo. Una sfida alla percezione, un ragionamento sulla realtà e sul mistero: la realtà è vera realtà oppure no? Le vedute nei quadri dentro il quadro sono estremamente realistiche, ma giacciono immerse in un ambiente irreale e misterioso, uno studio d’artista disordinato e incomprensibile.
RICOVERATO PER NEVROSI DI GUERRA – Forse penserai che non c’era tutto con la testa. Non esageriamo, anche se la guerra logora il fisico è la mente dell’uomo ad uscirne provata anche quando le ferite esteriori si rimarginano. Ad un certo punto il nostro Giorgio viene mandato in un ospedale psichiatrico militare dove curano nevrosi da guerra, proprio alle porte di Ferrara.
De Chirico venne ricoverato nella struttura di Villa del Seminario e sai chi ci trova? Carlo Carrà, il noto pittore futurista, messo più o meno nella stessa situazione. Rimangono qui da aprile ad agosto del 1917 e in quel periodo viene loro concesso di portare avanti l’attività pittorica. Lavorando fianco al fianco Carrà assumerà moltissimi elementi stilistici di De Chirico, impadronendosi anche degli stessi temi, ma quando tornerà a Milano abbandonerà completamente la metafisica prendendo la strada del realismo magico.
Di questo puoi trovare ampia traccia nella mostra, che ospita anche alcune opere di Dalì, Magritte, Morandi oltre che naturalmente di Carrà.
Un crescendo rossiniano fino alle ultime sale dove i celebri manichini dechirichiani fanno da padroni. Struggenti e incombenti con il loro carico di ansia e senso di impotenza davanti alla follia del mondo, sono un colpo al cuore diretto e spietato. Opere che attingono dai luoghi della realtà trasfigurati in spazi senza confini e senza tempo, spiazzanti con le loro pennellate di sconcertante semplicità.
I MANICHINI INQUIETANTI – C’entra sempre la guerra, come puoi immaginare, è un’esperienza che svuota dentro anche la persona più forte e preparata. Siamo nel 1917 e il primo conflitto mondiale è una novità per tutti, massacri su vasta scala e la chirurgia che un po’ ci prova, sperimenta, si avventura in terreni nuovi per tentare l’impossibile. Ecco allora nell’arte comparire cavità, cuciture, buchi nella memoria, dove si fa largo la follia, il tarlo mentale. I manichini sono fragili, inermi, incerti.
De Chirico dipinse i più famosi tra l’autunno del 1917 e la primavera del 1918. Sintetizzano la sua idea del mondo, dell’uomo e della poesia. “Le muse inquietanti” sono due vestali guardiane della città, riprodotte da un manuale di archeologia che il pittore consultava spesso e qui trasformate in simboli di pazzia e illogicità pur mantenendo un aspetto severo. La nostra piccola città di Ferrara sullo sfondo è la metafora del mondo, le muse sono guardiane di uno scrigno che contiene i misteri dell’universo, sfuggevoli, incomprensibili.
De Chirico non ha scelto Ferrara per eleggerla a capitale della metafisica, ma è vero piuttosto il contrario: vivere in questi luoghi è fonte di profonde riflessioni e suggestioni che nascono grazie ad una fortunata combinazione di elementi e che hanno contributo a rendere metafisico il significato senza tempo della sua opera. In questo senso la mostra bellissima che apre oggi al pubblico a Palazzo dei Diamanti parla prima di tutto a noi che abitiamo questa città, imponendoci una riflessione e una chiave di lettura che rispolvera ansie e inquietudini che cerchiamo quotidianamente di rimuovere, ma ostinatamente riemergono nel corso delle nostre vite frenetiche. Trascorrere un’ora in compagnia di queste opere può spaventare o commuovere ma farlo è un piccolo dovere civico e morale, il cui esito finale potrebbe riservarvi molte sorprese.