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Sono diventati grandi anche I Cani, cioè Niccolò Contessa e il suo progetto musicale che ha appena 5 anni ma ieri sul palco tra le quattro mura del Castello Estense sembrava avere la sicurezza di chi è ormai navigato, di chi ha calcato la scena al punto da aver infine fatto pace con se stesso e la notorietà che gli è piovuta addosso. Alla soglia dei trent’anni, con un look quasi nazi e una timidezza atavica che ha da poco lasciato alle spalle, fa piacere (ri)vedere un artista che da quel paio di canzoni su YouTube tutte hipsterismo e bile (I pariolini di 18 anni, Wes Anderson) è riuscito a produrre un gioiello come l’ultimo album Aurora, tra le uscite migliori – forse la migliore – dell’anno.
Che Niccolò non abbia più bisogno di nascondersi dietro un sacchetto in testa per garantire anonimato, come durante il primo tour del 2012, lo si vede dalla folla gremita perlopiù di giovani: forse mi sento un po’ vecchio perfino io a questo giro, quasi fuori posto. Il pubblico già caldo dal live set in apertura di Cosmo – uno degli artisti più sopravvalutati degli ultimi mesi – accoglie con boati e rimandi ogni singola parola dei testi di Contessa: le sa tutte a memoria, nessuna esclusa e mi viene in mente la serata con Vasco Brondi e il suo pubblico ferrarese due anni fa, a celebrare il ritorno a casa di chi ha sfondato, di chi ce l’ha fatta. È senza dubbio di nuovo il momento de I Cani in quest’estate 2016, ma anche di Calcutta, dei TheGiornalisti e di tutte quelle sonorità elettroniche della “scuola romana”, che a scuola non c’è mica andata davvero, tutta computer e tastierine, plugin e glitch poppettosi. Quindi in nome del successo ecco comparire qualche saltello scomposto sul palco, visual stramboidi da grande boh, un pacato stage diving sul finale dopo aver riposto gli occhiali da vista, si sa mai che vadano rotti, fino a qualche interpretazione libera dei testi per impreziosire lo spettacolo (su tutte, forse perché nella sua città natale, al posto dell’odiato Vasco Brondi nel testo di Velleità viene nominato Marco Bianchi, cioè Cosmo”).
Che fatica dev’essere però cantare di sofferenza interiore, crisi di panico, psicofarmaci e paranoie davanti a mille persone che pogano e saltano come fossero ad una festa. Sui passaggi di Post punk, dove si accenna di sfuggita alla morte del padre, le danze sfrenate della gente completamente avulse dal contesto sembrano scene da concerto del primo maggio. Bregovic!
Eppure al di là della sacrosanta voglia di divertimento tipica del live estivo c’è spazio anche per qualche brano più intimo e toccante al piano, come Finirà, Sparire o nel finale una raccolta Corso Trieste che quasi commuove. Contessa quasi se ne scusa di alcuni brani nuovi, quando annuncia un brano più vecchio, più allegro, più adatto ad una notte estiva di lampi in lontananza che rendono l’aria elettrica in tutti i sensi. Si scusa, il cantautore romano, ancora quando un piccolo inconveniente tecnico costringe il gruppo ad una breve pausa, ed è incapace a raccontare alcunché, ad intrattenere il pubblico in qualche modo. La musica è l’unico linguaggio con cui comunicare vincendo ogni paura, su cui ha lavorato sodo per guadagnarsi la stima e il rispetto di pubblico e critica.
Rispetto che ha ottenuto in pochi anni costruendosi un piccolo universo personale. Il linguaggio de I Cani più di ogni altro descrive la nostra generazione di scoppiati: un lessico pieno di termini hi-tech per persone sempre connesse, dove i problemi nascono tra le pieghe di un social network, nella ricerca egocentrica del proprio nome su Google, o nella ben più importante personale ricerca della felicità. Un sms che attraversa il mare con un messaggio importante, una dose ormai scesa che rende devastante e drammaticamente vuote le sette di sera, le coppie stereotipate che sai già come va a finire ma anche no. Mi chiedevo, tornando a casa in bici ieri con preoccupante tranquillità, per quanto ascolteremo e daremo rilevanza a tutto questo, a cosa penseranno i nostri figli di questi nostri Anni Zero, di questi pezzi pop che oggi ci entusiasmano, ci fanno saltare e cantare a squarciagola pieni di riferimenti che non verranno capiti già tra una decina di anni al massimo. Canteranno forse I pariolini di diciott’anni o Non c’è niente di Twee o gli preferiranno, ancora, le più immortali bionde trecce ed occhi azzurri di Battisti? Si entusiasmeranno ritrovando i dischi in cantina dei Cani o parleranno loro di qualcosa di ormai incomprensibile e antiquato?
Perché nella potenza struggente dei pezzi di Cani c’è proprio il piccolo mondo cane di oggi. Nessuno va particolarmente fiero di farne parte, con le sue nevrosi e la sua vacuità, ma ci rispecchiamo in pieno mentre ascoltiamo tutti insieme in una piazza un ragazzo timido che ha avuto successo perché ci ha saputo raccontare, con i nostri vestiti H&M in saldo tutti uguali e i nostri smartphone accesi per scattare foto tutte mosse uguali, che non rivedremo mai più. Un Hipsteria collettiva che ci rende tutti un po’ Niccolò Contessa, con i nostri problemi, le nostre paure insuperabili, i nostri tic e i nostri scheletri nell’armadio. Bellissimi e perdenti.