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Tanti anni fa un’amica mi aveva spiegato che un concerto di Bruce Springsteen è qualcosa di simile ad un rito pagano, ad un’esperienza sonora indimenticabile, ad uno spettacolo totalizzante che non è possibile spiegare a parole senza provare l’esperienza personalmente. Io avevo raccolto l’informazione prendendola per buona, con tutte le cautele del caso perché si sa che i fan al cospetto dei propri miti perdono ogni traccia di buon senso, e che si tratti di calcio o musica il tifo rende tutti poco obiettivi. In ogni caso difficilmente sarei mai andato ad un concerto di un artista che ho sempre ascoltato poco e di cui posseggo appena due vecchi cd (live) masterizzati da un compagno del liceo.
Ma la vita, si sa, è fatta di imprevisti e di probabilità, come insegna il Monopoli. Così quando ormai un anno fa la notizia di un concerto di Bruce Springsteen a Ferrara è diventata realtà ho comprato due biglietti per assistere all’evento nell’ultimo posto dove mi sarei aspettato di vederlo: a pochi passi da casa mia. L’ho fatto con quello spirito di curiosità che mi contraddistingue e mi porta a voler partecipare a qualunque cosa mi è possibile, tempo permettendo, e per vedere fino a che punto fosse vero che il cantautore americano meritasse l’appellativo di Boss. Boss di quale genere poi? Tutti quanti? E i Beatles allora? E il vecchio Elvis? Occorreva fare chiarezza. Consideratemi dunque un’occasionale, non me ne vogliano i fan della prima ora di Springsteen, quelli che a fianco a me per tutto il concerto sapevano i testi a memoria, i gesti da fare, le parole che avrebbe pronunciato un attimo dopo.
È l’una e mezza di notte e sono da poco tornato dal concerto al Parco Urbano: tre ore di musica dove ho infine assistito al rito pagano di cui sopra e mi sono convertito al culto del Boss.
Ma facciamo un passo indietro. Ho trascorso buona parte dell’ultimo mese parlando di Bruce Springsteen con qualunque persona mi capitasse davanti, e credo che la stessa cosa sia capitata a molti altri ferraresi. Succede quando capitano cose eccezionali in un luogo che solitamente non è abituato a viverle e dunque ci si agita, ci si organizza e tutti ne parlano perché la cosa va a toccare la vita di ognuno di noi. Così per via di Bruce le strade erano bloccate, per via di Bruce sono rimasto a casa dall’ufficio, per via di Bruce mia figlia a scuola aveva un pasto diverso dal normale, per via di Bruce la piscina era chiusa, non si poteva correre sulla mura, non si poteva entrare al Parco Urbano, i treni erano in ritardo, l’erba era tagliata e in ordine ovunque, alcune strade riasfaltate, c’erano transenne pronte dappertutto, mostre su Bruce, feste su Bruce, panini per Bruce, luminarie per Bruce, speciali su Bruce, litigi social su Bruce. Ogni altro impegno è stato rimandato o cancellato come nemmeno la settimana di Sanremo in tv, tutti hanno parlato di Bruce e adattato la propria vita per Bruce, dal barbiere al benzinaio, dal nonno al parco giochi fino alla signora delle pulizie, che mi ha chiesto chi cantasse al parco urbano perché non lo aveva ancora capito.
Quando una città intera si ferma per un concerto ci si interroga se sia il luogo giusto dove portare un evento così grande: a pochi passi dal centro storico, in una città di 130.000 abitanti farne arrivare altri 50.000 sembrava un’impresa impossibile e imprudente per l’ordine pubblico. Nei giorni dell’alluvione in Romagna poi, che ha messo in ginocchio oltre metà regione, a molti è parso del tutto fuori luogo: 50 km più in là intere famiglie sono rimaste senza casa, ci sono 13 morti, Protezione Civile e forze dell’ordine sono al lavoro incessantemente da giorni e il Boss viene a cantare allegramente? Inaccettabile. Ma rimandare un concerto un giorno prima, a giochi fatti, ha più senso che farlo lo stesso? Difficile dirlo senza conoscere tutti gli aspetti organizzativi ed economici.
E cosa dire dell’ecosistema parco, tra volatili in pericolo e flora calpestata e malridotta dai barbari accorsi per il concerto? Il dibattito ha tenuto banco sulla stampa e sui social per un anno intero e da domani riprenderà nuovamente visto lo stato in cui si trova ora il manto erboso. Insomma ragionando con calma senza farsi guidare dall’entusiamo del fan, questo concerto sulla carta non era decisamente da fare, per talmente tante ragioni che sembra incredibile sia andato in porto lo stesso.
Ma è successo invece, ed è andato tutto più che bene: oggi è il momento di applaudire e gioire che la città ha tenuto, disagi particolari non ce ne sono stati e siamo stati all’altezza del compito. Oggi è il momento di dare merito a chi ha avuto l’idea, a chi l’ha realizzata e a tutte quelle persone che hanno lavorato nell’ultimo mese per portare a casa il risultato anche quando sembrava impossibile e insensato proseguire. Mettete da parte per un giorno le tifoserie e i preconcetti: un concerto si giudica come spettacolo e la sua riuscita dal giudizio complessivo del pubblico pagante.
Eppure la giornata non era iniziata certo al meglio: il parco imbevuto d’acqua dalla pioggia incessante nei giorni scorsi pareva essere abbastanza in ordine a giudicare dalle foto diffuse dagli organizzatori sui social. Ma l’apertura cancelli prevista per le 8 del mattino è stata rimandata in poche ore prima alle 10 e poi alle 12.45, quando sono entrati i primi fan che erano accampati da qualche giorno in via Canapa. Nel mentre erano successe due cose strane: l’arrivo di camion con enormi balle di paglia da distribuire sul fango per tentare disperatamente di asciugarlo last minute, e l’anomalo silenzio stampa del Sindaco Alan Fabbri, che per ore non si è pronunciato sulla fattibilità del concerto e nemmeno ha solidarizzato con le popolazioni colpite dall’alluvione in Romagna, mentre cresceva il malumore social anche da parte dei fan di Springsteen.
Poi poco prima di pranzo la conferma che la paglia ha risolto e si può entrare, aprono i cancelli, il Sindaco si fa vivo per spiegare le ragioni dell’evento e per solidarizzare con il comune di Faenza tramite una raccolta fondi ufficiale. Si può cominciare e lasciare da parte divisioni e polemiche: la folla entra senza troppa coda in modo ordinato, i fan del Boss sono mediamente adulti e responsabili. Niente spintoni, niente chiasso, ma sorrisi e cordialità tra accenti che provengono da tutta Italia e tanti stranieri qui per la prima volta. A sorpresa tra il pubblico spunta pure Roberto Baggio: se lo incontravo probabilmente il resto sarebbe passato in secondo piano…
All’ingresso la malta è evidente, la paglia non è stata sufficiente per evitare di affondare con le scarpe e rimanere invischiati, specialmente in quella che dovrebbe essere la zona comfort, tra cibo e relax in attesa del concerto. L’odore di paglia poi crea un effetto stalla un po’ straniante, mancano i bufali e i cappelli da cowboy e saremmo perfetti per una serata americana come si deve.
Per arrivare nella zona del concerto si passa attraverso una serie di controlli e cunicoli dove via via si viene instradati nel luogo giusto. Sembra un po’ Giochi senza frontiere: qualcuno scivola e cade nel fango, alcuni mettono al sicuro entrambe le gambe con enormi sacchi del pattume per evitare la zacchera, altri giocano felici a ping pong sotto uno stand e da lontano avvistiamo un chioschetto abruzzese che fa arrosticini. Per prendere da mangiare però devi comprare i token, tipo dei gettoni ma in inglese, pardon americano, così fai la coda per i token e poi pure per il cibo. Per fortuna che l’acqua è gratis e distribuiscono bottigliette fino ad esaurimento scorte.
Sul palco si esibisce Sam Fender, dicono sia l’erede di Bruce e infatti è tale e quale, ma ha meno della metà degli anni del Boss e si chiama come una nota chitarra elettrica. La gente intanto bivacca sui teli stesi per coprire il fango, e crea evidenti buchi nelle zone dove si sprofonda di più, ma nel complesso l’area è vivibile e per chi ha fatto in vita sua almeno un concerto rock non è di sicuro nulla di nuovo. Alcuni raccontano che in PIT A hanno drenato il terreno in modo perfetto per chi ha pagato il biglietto più costoso, nella B un po’ meno, e quei poveracci dietro nella D stanno nuotando con i braccioli. Si fa per ridere, e passare il tempo.
Poi quasi puntuale alle 19.40 circa ecco salire sul palco uno ad uno i componenti della E Street Band, un gruppetto di simpatici e arzilli signori conciati in modo bizzarro, che paiono usciti da Pirati dei Caraibi. Infine ecco il Boss, in forma smagliante nonostante le sue 73 primavere, camicia nera slim fit d’ordinanza, chitarra al collo e via che si va: Ciao Ferarra!
Sulle note di No surrender inizia il concerto tra le urla del pubblico e con una carica inaspettata: la scenografia del palco non è altro che un maxi schermo in grado di triplicare l’immagine di ciò che accade in scena, ma con una nitidezza e delle dimensioni da cinema del futuro. Il faccione di Bruce è enorme davanti a noi, si materializza con le sue gote appena un poco rubizze tra gli alberi del Parco dedicato a Bassani e non lascerà mai un attimo il palco cantando e suonando per quasi tre ore.
Sono bastate poche note per capire, poche note del primo brano così travolgente e americano, così pieno nel sound ma così perfetto nel bilanciamento dei suoni, nell’esecuzione, nella virtuosità di musicisti tra i migliori al mondo. Poche note ed ero uno di loro, folgorato sulla via Bacchelli, convertito nei pressi dei laghetti. Avevate ragione voi e tutto questo è pazzesco. Sarà il primo tramonto con il sole dopo giorni difficili, sarà che sta davvero succedendo, sarà quel sorriso yankee e piacione che ricorda un po’ Joe Biden con dieci anni di meno o il Parco Urbano che stasera è bellissimo se lo guardiamo con il naso all’insù e dimentichiamo lo scempio sotto i nostri piedi. Saranno tutte queste cose insieme ma in quel momento preciso mi sono commosso. Per fortuna avevo ancora addosso gli occhiali da sole e li ho tenuti per un bel po’ perché non riuscivo a non essere emozionato davanti ad uno spettacolo che pensavo non mi appartenesse, ad una messa cantata di un culto che ancora non conoscevo.
La lezione di Springsteen è un inno alla vita e a saper cogliere ogni momento godendone a pieno per non avere troppi rimpianti un domani. La vena malinconica degli ultimi anni emerge in pezzi come Letter to you o la struggente Last man standing, dedicata all’amico di una vita da poco scomparso. Ma c’è ampio spazio per virtuosismi jazz e blues e per i grandi classici degli anni Ottanta, quei pezzi che conoscono tutti e ricordo alla radio pur non avendoli mai fatti davvero miei: Badlands, Born in the USA, Born to run, Dancin in the dark.
Sul palco Bruce urla a volte, non senza qualche imprecisione perdonabile, suona l’armonica, si perde in assoli perfetti e ha una carica invidiabile per la sua età, mentre intorno a me il pubblico è quasi interamente più giovane di lui (di poco) ma già accusa mal di schiena per l’umidità. Anche noi alle soglie dei quaranta dopo un’ora vorremmo già una seggiolina mentre sul palco l’allegro ritrovo di musicisti dimostra che il segreto per invecchiare bene non è noto solo agli Stones. E che dire di Jake Clemons, giovane ragazzone riccioluto della Carolina del Sud, nipote del compianto Clarence, già sassofonista del Boss? Quando partono i suoi assoli di sax così rotondi e corposi c’è da pisciarsi sotto e il parco risuona con una potenza che mi rapisce. Mi riprometto di studiare sax, in un’altra vita.
Lassù in cima al maxi palco sventolano una bandiera americana ed una italiana: tra Ferrara e la Luna questa sera c’è in mezzo l’America, è venuta a liberarci di nuovo dai nostri peccati, dall’orrore del cambiamento climatico, dalle incertezze, dai problemi che abbiamo affrontato per essere qui questa sera. E speriamo che l’erba ricresca, che il parco torni a splendere per tutti e non solo per noi stasera, speriamo diventi un impegno concreto di chi ha organizzato. Chi vorrebbe solidarietà per gli alluvionati nelle parole del Boss rimarrà deluso, the show must go on come alla fine succede ogni volta e la scaletta è rigorosa senza spazio per fuori programma. Ma in quella No surrender che apre ogni data del tour europeo si può forse intravvedere un messaggio che ci riguarda?
Abbiamo fatto una promessa
Abbiamo giurato che ce ne saremmo sempre ricordati
Nessuna ritirata, amico, nessuna resa
Come soldati in una notte d’inverno con un giuramento da rispettare
Qualcuno a fine concerto piange a dirotto, alcuni si abbracciano felici. Hanno il volto stanco di chi ha già visto questo spettacolo diverse volte, i capelli grigi e la maglietta di qualche vecchio tour. Il Boss esce per un’ultima canzone, solo voce e chitarra: I’ll see you in my dreams. Chissà se ci sarà un’altra occasione dal vivo o resterà solo un sogno. Per Ferrara per una sera lo è stato. Per me è SI. Bravi tutti.