20 Maggio 2014

Due anni dopo il sisma: reportage tra i paesi della bassa padana

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A vederla ora, la Ferrara ferita dal terremoto esattamente due anni fa oggi, sembra che tutto sia successo in un tempo remoto, lontano dai problemi che abbiamo maturato nel mentre, lontano dai pensieri che riempiono le pagine dei giornali e le chiacchiere della gente. Eppure qualcosa è successo anche qui. Quella scossa alle 4.03 che si è portata via case, persone, strade ed opere pubbliche ha avuto il suo epicentro solo a pochi chilometri di distanza dalla città in cui ci muoviamo tutti i giorni. Due anni dopo è difficile scorgerne ancora i segni, dettagli sparsi visibili a chi sa guardare con attenzione, a chi sa cosa cercare. Sono sparite le guglie sopra le chiese, chiuse a decine nel loro eterno silenzio, sono stati rimossi pinnacoli dalle porte di ingresso alla città, ci sono interi palazzi inagibili che da fuori sembrano perfettamente normali ma hanno un cuore malato e perduto, forse mai più riparabile. La torretta dei Leoni del Castello Estense, simbolo delle ferite del centro cittadino, è oggi completamente restaurata e solo il datario dell’orologio che scandiva le giornate ai passanti del centro è stato rimosso, a volerci fare caso. La ricostruzione è partita da tempo, molto è stato quantomeno sistemato ad un primo sguardo, ci sono cantieri aperti e tanta voglia di fare, come sempre qualche ritardo sui tempi previsti, iniziative private, raccolte fondi e un cuore grande così come ogni popolo colpito da catastrofi naturali ha saputo mostrare. Il turista distratto che passa in città quasi potrebbe pensare che da queste parti non è in fondo successo nulla. Eppure.

Foto di Giacomo Brini

Eppure basta uscire solo pochi chilometri dalle mura per trovare intatti quei segni profondi che il sisma ha lasciato su questa terra e la sua gente. Che ne è stato poi della provincia? I media accorsi come mosche con le loro parabole sono ripartiti dopo pochi mesi verso nuove emergenze, nuovi racconti drammatici da testimoniare. Che fine hanno fatto gli anziani di San Carlo che dormivano nelle tendopoli? E le famiglie di Sant’Agostino? Chi racconta la provincia dei piccoli comuni che faticosamente cerca di ripartire o quantomeno convivere con quello che è stato?
Una mattina della settimana scorsa decidiamo di prendere la macchina e andare a vedere. Perché è la curiosità che ci salva, che ci tiene vivi e ci fa comprendere come stanno le cose davvero. Bisogna metterci il naso per rendersene conto, senza la pretesa di trovare qualcosa in particolare, di sapere tutto. Partiamo con la voglia di fare fotografie della situazione, di fissare un punto a due anni dal sisma per vedere i segni del tempo che passa.
I primi paesi di questa geografia della memoria si trovano andando verso Cento, passando da Vigarano Mainarda, dalla lunga via Frattina dove sono crollati pagliai ed edifici già malmessi, da Borgo e Vigarano Pieve e la sua chiesa danneggiata.
Dice: fosse venuta una scossa nel centro cittadino i danni sarebbero stati irreparabili. In campagna invece è tutto più diradato, dilatato. Non è come girare tra le rovine di una città fantasma tipo L’Aquila, completamente puntellata e abbandonata. Passano macchine, ci sono uomini al lavoro, la vita scorre lenta come prima. I campi si perdono a vista d’occhio e nascondono molte ferite tra la ricca vegetazione primaverile ma alcuni segni inequivocabili raccontano all’obiettivo discreto di una macchina fotografica una storia di desolazione e tristezza.

Mirabello
è un paese che non ha più una piazza davanti alla sua chiesa: il tetto è stato ricoperto da tubi innocenti e lamiera, l’abside non esiste più. L’intera area è transennata e inaccessibile, una signora ci lascia guardare da vicino mentre si occupa di rimuovere le erbacce che crescono negli squarci tra il cemento. I negozi che si affacciano sull’area sono chiusi, abbandonati come erano quel giorno, hanno ancora dentro qualche timido arredo, insegna, pubblicità. Ricordo lo straniamento a L’Aquila nel vedere il cartellone del film in proiezione fuori da un cinema, rimasto appeso per sempre in una Pompei moderna e desolante. Il bellissimo palazzo della Banca Monte dei Paschi è ancora puntellato e inagibile, prima o poi arriverà il suo momento per la demolizione e l’ingresso in paese non sarà più lo stesso venendo dalla città. Un cartellone annuncia una festa con balli di gruppo. La bacheca affissa sul municipio ha diversi argomenti all’ordine del giorno per la prossima assemblea, nessuno riguarda il sisma. Qualche edificio è crollato, alcuni sono stati completamente demoliti e non restano che le piastrelle a delimitarne i contorni: tracce di vita quotidiana celata tra le mura domestiche esposta alle intemperie in attesa di giudizio, in vista di una ricostruzione, forse altrove, forse mai più.
A San Carlo non vola una mosca. Nella piazza non passa nessuno, sono tutti al bar quei pochi che non lavorano e magari non sanno dove stare con un paese ancora scosso in tutti i sensi. Si chiama Bar Italiano ma lo gestisce un cinese. Seduti ai tavolini gli anziani discorrono delle loro cose, commentano il giornale, si infervorano per una partita a trionfo. Il Signor Pigo ha voglia di mostrarci che fine ha fatto la sua casa, senza rabbia o sdegno, sembra sereno nell’aver accettato la sorte che gli è toccata.
San Carlo è un paese spezzato in due: in mezzo corre una linea che ha sollevato di diverse decine di centimetri dal suolo quello che ha trovato lungo il suo percorso. È il paese con le crepe nei campi di granturco dove la gente si faceva le foto entrandoci fino al collo. E’ il paese dove la terra ha ceduto ributtando fango e melma dentro le case degli abitanti che vivevano lungo la direttrice delle scosse. Il Signor Pigo quella notte non sapeva di essere nel posto sbagliato al momento sbagliato. Cento metri più in là nessun danno. La sua casa la notte del 20 maggio si riempie di fango, così quella del vicino poco oltre, i mobili si ribaltano completamente, le porte scardinate. Lui e la moglie restano intrappolati qualche ora. Il garage è ancora intatto, pieno di ricordi, foto che ci mostra con distacco, come narrasse fatti ormai lontani. Dall’altra parte della strada, davanti alle stanze appena percettibili di una casa ormai demolita in mezzo al fango sorge il prefabbricato della nuova scuola elementare. Due studenti passano entrando in ritardo, vestiti alla moda, zaini pesantissimi, tutto regolare. Life goes on. I cantieri non mancano, molti operai sono al lavoro, ma perché inizino i lavori bisogna aspettare i tempi della burocrazia. Questione di anni a volte.
Torneranno a vivere da queste parti un domani? Il signor Pigo è sicuro di si. Intanto al posto dell’enorme storico edificio della Pizzeria La Pace c’è solo un mucchio di detriti in un container con scritto BOVINA. Il ricordo delle piacevoli serate trascorse in questo luogo è spiazzante e disturbante: sembra di essere altrove, di aver sbagliato posto. Non era qui che abbiamo vissuto, dev’esserci uno sbaglio.
A Sant’Agostino del simbolo del terremoto emiliano non resta più molto. Il gigantesco edificio del municipio ferito a morte è ormai stato demolito: in piazza un cumulo di macerie e un monumento ricordano al passante la furia del sisma. Sembrano scavi archeologici, fondamenta di palazzi ormai rovinati dal tempo. Intorno c’è il mercato del venerdì, la gente acquista tranquilla, c’è il sole. Nemmeno alle Ceramiche Sant’Agostino ci sono più i cumuli del capannone crollato che costò la vita a due operai. Al suo posto una piazza enorme e vuota e un silenzio irreale. Nulla è stato costruito al suo posto. In lontananza un transpallet sposta piastrelle verso un punto di stoccaggio.
A Finale Emilia non ero mai stato prima. E’ un borgo bellissimo, ordinato e antico, lo troviamo pieno di gente in giro per le piazze e le strade. Ci guardiamo in giro per scorgere i segni del terremoto ancora visibili e mentre la Rocca Estense è chiaramente danneggiata sembra impossibile scoprire dove sorgeva la Torre dell’orologio che tante volte è stata fotografata. Quella torre rimasta in piedi dapprima solo a metà, con l’orologio spezzato in due a segnare il tempo che si è fermato quella sera. Ora non è che un troncone mozzo su cui è cresciuta l’erba, non fosse per un cartello a ricordarne gli antichi fasti è quasi diventata insignificante nel contesto dello spiazzo su cui affaccia. Al centro della rotonda una nuova torre di ferro è stata costruita e un enorme orologio scandisce il tempo ai rintocchi dell’antica campana. Le foto che circondano la ringhiera della piazza raccontano quelle giornate di maggio di due anni fa, la Finale che era, la Finale che è oggi, i volti dei Vigili del Fuoco, degli anziani, gli abbracci tra la popolazione impaurita e la ricostruzione ormai avviata.
Anche San Felice sul Panaro porta pesanti segni del terremoto e due anni dopo i suoi cittadini convivono con nuovi monumenti: tra i palazzi rimasti in piedi e quelli inagibili o crollati il sisma ha ridisegnato i profili delle strade, sfiancato l’economia locale delle piccole industrie di ceramica crollate e chiuso attività a volte appena pochi mesi dopo per la crisi. Il borgo più antico sembra uno scenario di Cinecittà per un film ambientato nel dopoguerra, tra vecchie case spallate, rioni pieni di macerie e zone rosse con divieti vari: dietro le facciate delle case spuntano erba e nuvole, poco oltre l’autobus si ferma e lascia scendere gli studenti che tornano dalle nuove scuole, il mercato rionale inizia a sbaraccare. Un’altra settimana è finita.

Cavezzo
è forse il paese più colpito da quei 5.9 gradi della scala Richter che hanno scritto a grandi lettere nel nuovo centro commerciale in piazza. Tre quarti del centro storico è stato distrutto dal sisma, le ferite sono ancora aperte e ben visibili: dalla chiesa mozzata ai palazzi squarciati sembra di essere a tratti in paese in guerra a tratti in un paese che sta ripartendo tra mille cantieri. In Piazza Martiri della Libertà un enorme prefabbricato è stato posizionato ormai un anno fa con negozi e bar di ogni tipo. Si chiama “Cavezzo 5.9 ShopBox”, centro di aggregazione contemporaneo di un paese profondamente cambiato che non può e non vuole dimenticare. Lo scenario desolante intorno cui si muove velocemente una signora con la sporta della spesa è lo stesso che vede turisti curiosi immortalare alcuni edifici crollati. Sono i luoghi cui il sisma ci ha abituato e dove cresceranno le generazioni future durante la lunga ricostruzione. Le scosse durano minuti, giorni, mesi, poi si ricomincia a vivere cercando di accettare una città mutata e ferita, cercando di capire i nuovi spazi, le nuove abitudini che diventano con il tempo routine quotidiana. Nuovi negozi, nuove chiese, nuovi uffici pubblici, nuove piazze. È forse qualcosa di difficilmente comprensibile per chi non ha provato sulla sua pelle un simile disagio, una linea rossa che traccia inevitabilmente un prima e un dopo con cui dover fare i conti ancora per molto tempo. Due anni dopo sembra passato un secolo eppure era ieri. Il cuore degli emiliani è andato avanti, si è rifatto una vita, i paesi intorno a loro avranno bisogno di qualche anno ancora per sorridere di nuovo.