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Mentre il treno lentamente prende velocità abbandonando la laguna di Venezia ripenso al primo giorno che ne ho preso uno con regolarità dalla stazione di Ferrara, iniziando la mia vita da pendolare, ben nove anni fa. Era settembre, avevo finito il servizio civile il giorno prima e una nuova avventura iniziava. Non avrei mai immaginato sarebbe durata così a lungo o forse immaginavo la mia vita direttamente altrove, chi se lo ricorda. Nove anni nella vita di una persona di poco più di trenta rappresentano circa un terzo del percorso: ho passato più tempo su e giù dai treni che al liceo per esempio. E il liceo è durato un’eternità tutto sommato. Ho passato più tempo in treno che all’Università, e l’Università è durata anch’essa un’eternità.
Ricordi gli anni del Liceo? E quelli dell’Università?
Ad un certo punto si diventa adulti e si va a lavorare, se si è fortunati ad avere un lavoro, e nell’immaginario dei nostri genitori quel lavoro doveva durarti per tutta la vita. Quarant’anni di servizio, quarantacinque anni di contributi, mille ore di straordinari. Vite intere spese a lavorare nello stesso posto, a fare le stesse cose giorno dopo giorno, settimana dopo settimana, anno dopo anno, diventando vecchi. La generazione degli irrequieti, la mia, si stanca di fare qualcosa mediamente dopo qualche mese, credo che in pochi trascorreranno la loro vita a fare sempre lo stesso mestiere, vuoi anche per le condizioni economiche e lavorative di oggi.
Ma dicevamo del treno, questo esemplare antico e puzzolente che trasporta le anime assonnate al mattino verso stanze impersonali dove fissare il monitor in attesa della pausa pranzo e le riporta poi a casa sudate la sera con l’aria condizionata sempre rotta, il riscaldamento sempre spento, i bagni sempre sporchi. Per nove anni ho frequentato treni e con essi le stazioni che toccava ogni mattino. C’è chi frequenta sempre la stessa compagnia, chi lo stesso bar. Io ho frequentato la stazione di Ferrara: conosco a memoria la posizione delle panchine nel giardino del grattacielo, i minuti che separano il binario quattro da casa di mia nonna dove ho parcheggiato con precisione l’auto ogni mattina, le facce degli spacciatori che bivaccano e mi salutano senza che abbia mai comprato nulla da loro. Incrocio le stesse persone ogni volta che come me scandiscono il loro inizio di giornata con gli stessi riti e gli stessi orari: li vedo passare nello stesso punto preciso ogni volta, un deja-vu inquietante che nemmeno il Truman Show.
Conosco gli accenti della voce elettronica che annuncia meccanica l’arrivo di un regionale, il ritardo di un frecciarossa, lo sciopero, l’imprevisto, ci scusiamo per il disagio. Conosco l’odore della sala d’aspetto il mattino dopo che vi hanno bivaccato un paio di senzatetto e quello delle pizzette appena sfornate del panificio interno. Conosco il numero di persone in coda che avrò davanti a me per rinnovare l’abbonamento il primo del mese, la faccia e il nome dei bigliettai, la posizione della carrozza di prima classe declassata di cui approfittare spesso. Conosco il suono agghiacciante di un poveraccio che si butta di sotto al tuo convoglio per farla finita e quello di un terremoto che ti ferma in mezzo alla campagna senza poter proseguire oltre.
Conosco una ad una le facce di chi prende il treno ogni mattina e si ritrova in attesa su un blocco di cemento con la pioggia o con il sole. Ci si conosce tutti, non ci si saluta mai. I pendolari non legano, non parlano, non stringono amicizie, al limite lavorano o dormono. So come si chiamano, che lavoro fanno: pezzi di vita altrui raccolti in anni e anni di sedili condivisi, scampoli di telefonate, frammenti di appunti, libri. Conosco a memoria i modelli degli smartphone che ognuno di loro ha davanti alla faccia per buona parte del viaggio, conosco quelli che comprano Libero e chi non rinuncia all’Unità, so chi di loro è un dottore in caso di emergenza, chi un poliziotto in borghese, chi un avvocato o un pifferaio.
Frequento la stazione ma da domani dovrò dire frequentavo. Come qualcuno che lascia la propria città per un po’ e raggiunge gli amici al bar per salutarli, per un attimo mi è venuta voglia questa mattina di dire a tutte quelle facce con cui non ho mai scambiato una parola: Ehi! Addio! Buon proseguimento, chissà se ci incontreremo di nuovo in coda alla Coop o al parco urbano e fingeremo di non conoscerci! Avrei dovuto dargli un abbraccio uno ad uno, dirgli: grazie per la compagnia o qualcosa del genere. Giuro che è stata solo una debolezza momentanea.
Ti mancherà il treno, mi han detto. Uscire di casa per andarsi a sedere su una poltrona, guardare fuori dal finestrino, immergersi nei propri pensieri per un’oretta, chi non vorrebbe? Così pensavo anche io nove anni fa quando, proprio in questi giorni, prendevo il primo treno con un romanzo da iniziare in borsa e un sacco di tempo libero davanti. Poi dopo aver finito la tua biblioteca di casa e guardato stagioni intere di serie tv, recuperato vecchi film, dopo aver dormito, lavorato, guardato per aria, dopo aver impiegato questo tempo in qualunque modo possibile ecco che anche quel modo di viaggiare inizia a stare stretto, a non comunicarti più nessuna emozione particolare. Se viaggiare e scoprire il mondo non è più di alcuno stimolo forse è venuto il momento di cambiare aria. Certo, il piacere di arrivare a destinazione e trovarsi davanti il Canal Grande in una giornata di sole non era cosa da poco. Questa mattina sembrava proprio dire: sicuro di non venire più?
Venezia è una bella signora, troppo bella per incontrarla forzatamente ogni giorno fino a non vederla più con gli stessi occhi affascinati del turista novellino.
Mi mancherà il treno, mi han detto. Ma anche no, penseranno molti di voi che sanno benissimo di cosa stiamo parlando.