1 Luglio 2013
Bobo, é di nuovo il momento di Ferrara Sotto le Stelle: diciottesimo anno per questa rassegna, in un certo senso quello della maturità. Com’era nata l’idea di organizzare un festival come questo?
In realtà diciotto anni fa non me ne occupavo io, collaboravo su altre cose ma curo il festival da solo dieci anni. Credo che Ferrara sotto le stelle sia nata come esigenza delle istituzioni di allora, ancora con il sindaco Soffritti, di avere un’iniziativa musicale di buon livello che potesse coprire un ambito ancora scoperto, rispetto altri in cui Ferrara poteva invece vantare delle eccellenze. La produzione pero è sempre stata affidata all’associazione “Ferrara sotto le stelle”, affiliata all’Arci.
Prima qualche tentativo in Piazza Ariostea, poi Piazza Municipale, infine Piazza Castello, ormai celebrata e ammirata da chi ha partecipato negli anni ai concerti. Il Festival ha trovato qui il suo equilibrio oppure si possono pensare altri luoghi adatti per chiamare artisti di più ampio respiro?
Dopo le prime edizioni in Piazza Municipale venne organizzato un concerto di Beck in Piazza Castello, con le riprese di MTV Europe. Il risultato fu emozionante e nonostante le spese di produzione più alte era chiaro che lo spazio era perfetto per organizzare altri concerti. Quella scelta finì per condizionare molto la produzione del festival, che si è quindi calibrato per uno spazio enormemente più grande e più difficile da gestire, con una capienza di circa 5000 persone. Abbiamo poi ragionato su due binari: organizzare la maggior parte dei concerti in Piazza Castello e svolgere un lavoro di ricerca su artisti meno affermati da proporre in uno spazio più piccolo come il cortile del Castello Estense.
In Piazza Ariostea abbiamo fatto tentativi in passato, come nella seconda edizione, ma ha una capienza intorno ai 15mila posti e diventa enormemente complesso fare un concerto per il quale devi chiudere un asse della città e la produzione va ad insistere in un’area commerciale. Devi avere dei motivi molto seri per mettere in gioco un posto come quello.
Andare al parco urbano sarebbe impensabile vero?
Portare la produzione al parco urbano diventa ingestibile anche se mi piacerebbe molto. Un osservatore esterno trae conclusioni sulla possibilità di spostarci in quell’area senza tenere conto della difficoltà di chi organizza eventi musicali: prima di tutto lo spazio è aperto e difficilmente contenibile a meno di fare un concerto gratuito, e in secondo luogo, non meno importante, sei in un ambito naturalistico. Le produzioni, i tir, il palco e le persone che partecipano sono invasive per l’equilibrio di un parco di quelle proporzioni.
In quanti lavorate al festival? Immagino sia uno sforzo complesso mettere insieme tutti i pezzi per realizzare un evento di più giorni, dove coordinamento, affiatamento e un buon lavoro corale diventano fondamentali.
C’è una parte del lavoro che inizia quasi un anno per l’altro ed è quello che faccio io. Trattative, contatti con le produzioni dei concerti, negoziazione… Più avanti durante l’anno si mettono in moto altri come Paolo Vettorello, direttore di produzione, che cura aspetti come la logistica con Andrea Vincenzi. Via via che si avvicina il festival subentrano altre figure che si occupano di permessi, burocrazie e altre questioni estremamente complesse, come la gestione di aree pubbliche, dei residenti, dei livelli di volume… C’è poi Rossella Merighi che segue la parte di grafica e web, e con le band in loco arrivano la security, i promoter, lo staff che ci segue sul palco e dietro il palco relazionandosi con il tour manager. E non dimentichiamo i facchini a montare e smontare i palchi. Uno staff notevole, quasi tutti di Ferrara a parte Elisa che è qui in stage e viene da Bologna.
Per una città piccola come Ferrara ci siamo ritrovati in piazza nomi di fama mondiale, piccoli pezzi di storia del rock: pensavi che sareste arrivati a tale dimensione internazionale all’inizio di tutto?
Quando ho cominciato ad occuparmi del festival l’ho fatto in modo tale che da quel punto in poi avrei potuto solo peggiorare… (ride). Era il 2003, l’anno delle due date dei Radiohead, la prima data italiana dei Sigur Rós… l’anno in cui abbiamo dato la svolta ad un festival generalista con area di interesse limitata per renderlo un appuntamento che si è fatto immediatamente notare, grazie a ospiti di un certo livello. È stata la dimostrazione che eravamo in grado di reggere produzioni enormi ed è stato utile con gli agenti stranieri, che di solito gestiscono piu artisti: rimasero piacevolmente colpiti vedendo la resa dei concerti e l’organizzazione che c’era stata. Un buon biglietto da visita perché altri in futuro scegliessero Ferrara.
Così avete anche stuzzicato la fantasia di molti che hanno sperato di vedere i nomi più incredibili nella piccola piazza di una città di provincia…
Da un lato ovviamente poteva essere controproducente perché molte persone hanno pensato ingenuamente: hanno suonato i Radiohead perché non possono venire anche i Rolling Stones o gli U2? Che è un modo di ragionare un po’ limitato visto che abbiamo solo 5000 posti. Nessuno fa i conti che possiamo ipotizzare solo concerti per quella capienza… a volte si leggono ipotesi in rete o ci arrivano richieste assurde via email di nomi che non possiamo permetterci. Nel caso dei Radiohead poi fu la band a voler fare a tutti i costi una data a Ferrara facendo sopralluoghi mirati e scegliendo realtà piccole, maggiormente congeniali per loro. Successivamente hanno fatto altre scelte, magari in data unica in luoghi meno particolari ma più remunerativi.
Anche quest’anno dunque i soliti criticoni sul cartellone? Le aspettative del pubblico erano diverse da quanto si è riusciti a fare?
Il budget è calato in maniera drastica e se le risorse scarseggiano la tua capacità di essere attrattivo diminuisce. Altra cosa che in molti fanno finta di non sapere è che da diversi anni nessuno compra più dischi. Tutti hanno riempito dischi esterni di album scaricati che non avranno mai il tempo di ascoltare, danno retta un attimo alla next big thing e via andare. Una fruizione superficiale che ha portato prima un calo, poi un crollo, ora un collasso dell’intero sistema musicale. Se un artista si sosteneva tramite la vendita di dischi ora lo fa tramite i concerti. La vendita dei dischi semplicemente non esiste più, è il Nulla. Questo ha fatto schizzare in alto i cachet degli artisti. Sono aumentati tutti i costi che girano intorno ad un concerto, alla sua produzione. Prima che questo accadesse il fatto di avere una buona intuizione su un’artista ti pagava. Potevi arrivare primo su artisti che ancora non erano esplosi completamente e li portavi in città, quando erano più economici. Ora non è possibile: anche se un gruppo ha fatto un solo disco ha spesso comunque costi proibitivi e se ha avuto un minimo di attenzione internazionale poi… (segue a pag. 2)