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Trentacinque edizioni dopo Ferrara è una città molto diversa da quella in cui i primi artisti suonarono nel 1987: senz’altro più luminosa e viva, partecipata, ma reduce come tutto il mondo dallo scossone che una pandemia ha dato alla nostra voglia e capacità di stare insieme. Tornare a rivedere i musicisti di strada per le vie del centro di Ferrara è un tassello importante di questa lunga ripartenza, è un segnale di speranza e di normalità di cui c’era bisogno. Oggi la città vive di eventi quasi tutto l’anno ma negli anni Novanta il Buskers Festival rappresentava forse il momento di massima visibilità per la città, con un afflusso di turisti enorme e le consuete polemiche di chi doveva dormire, non riusciva a passare, c’è troppa gente, puzzano, non si lavano, si fanno le canne, eccetera. Ve lo ricordate, si?
Sembra passato un secolo ma ricordo perfettamente ogni agosto quando il TG1 annunciava il festival degli artisti di strada a Ferrara e io iniziavo a salutare gli amici della montagna perché a breve sarei tornato a casa: ci sono i buskers, spiegavo. Qualcuno prometteva di venire a vederli, anche se abitava molto lontano.
Questa edizione trentacinque sembra un po’ un ritorno alle origini, quando gli artisti erano molti meno e si riusciva in qualche modo a sentirli tutti, sfruttando la rotazione delle varie giornate. Appena dieci anni fa la calca per le strade del centro (che si estendeva ben oltre la zona dedicata di quest’anno) era spesso insostenibile, molti artisti suonavano troppo vicini e dovevano sperare di non incappare in qualcuno di troppo rumoroso o popolare nelle vicinanze. C’erano gli artisti invitati, quelli accreditati, quelli abusivi, Scabbia, le bancarelle ufficiali, quelle non ufficiali, i venditori ambulanti, i varchi per entrare, l’offerta libera ma in pratica obbligatoria, l’adesivo della vergogna, che se non lo avevi addosso allora eri entrato senza pagare.
Via tutto, spazio allo spettacolo. Ventidue artisti invitati, molti veri e propri veterani del festival: li conosciamo, li abbiamo visti crescere ed invecchiare, maturare artisticamente, cambiare volto, look, genere. Alcuni di loro sono esistiti nel nostro immaginario soltanto al Ferrara Buskers Festival, non in tv, in radio o in qualche altro festival. Sono i nostri vecchi buskers, sono tornati per le strade, stringetevi intorno, venite più vicino chiede Tribalneed, così creiamo una bolla di suono più intima e non disturbiamo nessuno. Inizia a suonare con un didgeridoo ma poi tira fuori tastierine giocattolo, grattugie, piccoli xilofoni di legno per creare un sound tribale ed elettronico, decisamente techno anche senza l’uso di un computer.
Poco distante gli australiani Opal Ocean radunano una piccola folla facendo magie con le chitarre, ancora oltre davanti alla Cattedrale ritrovo gli Ambaradan: vengono da Torino ma sembrano del tutto diversi da come li ricordavo tanti anni fa. Li avevo lasciati che facevano quasi un cabaret con strumenti da banda, ora suonano musica popolare balcanica (ma non solo) con una formazione internazionale e una cantante ucraina. Il pubblico ondeggia, batte le mani e più tardi finalmente si lascia andare a qualche danza.
Mentre ballano mi chiedo cosa pensino gli artisti del pubblico ferrarese, da sempre noto per essere distaccato e difficile. Molti riprendono con lo smartphone l’intero spettacolo, producendo video di dubbia qualità. Non li rivedranno mai ovviamente, non è il filmino delle vacanze, dei figli, del gatto… a chi interessa rivedere una performance musicale di strada ripresa male, con l’audio gracchiante e la gente in mezzo che copre gli artisti? Eppure tantissimi lo fanno, concentrandosi sullo zoom, sull’inquadratura, di fatto non godendosi per nulla lo spettacolo e distraendosi completamente da quello che l’artista sta proponendo.
Il patto tra chi suona in strada e il pubblico in fondo sarebbe solo questo: non ci sono barriere, non ci sono palchi, siamo insieme noi e voi. Divertiamoci, passiamo del tempo insieme, ma lo spettacolo funziona soltanto se partecipiamo entrambi con trasporto.
Davanti alle camicie perfette del negozio di Felloni si esibiscono i Kallidad, tra uno spettacolo e l’altro fanno un sacco di selfie con i più piccoli perché hanno la faccia dipinta tipo i Kiss, ma forse alle nuove generazioni sembrerà più un filtro Instagram. Passa l’Uomo della Strada, sentenzia senza fermarsi: “certo che gli altri anni c’era veramente molto più gente, ti ricordi che roba?”. È solo la prima sera infrasettimanale di un giorno lavorativo, gli artisti sono appena ventidue e per raggiungerli devi ovviamente camminare tra uno e l’altro ma no, la polemica non riusciamo proprio ad evitarla.
Davanti al castello si fanno decisamente sentire i Daiana Lou, altra vecchia conoscenza del festival, italiani di stanza a Berlino, sempre carichissimi e pieni di energia. La gente intorno sembra divertirsi, un gruppetto di ragazzi beve qualcosa da una cannuccia attaccata al cappello di uno di loro, sembrano aver già passato il limite, cantano sopra la band cose a caso e vengono richiamati dalla security. La cantante annuncia il prossimo pezzo dedicato all’inverno berlinese, “con quel cielo grigio e noiosissimo”. Non è che anche qui sia una passeggiata, fa notare qualcuno tra il pubblico.
Nell’atmosfera raccolta e affascinante della Rotonda Foschini ritrovo Tupahn, che nel mentre è un signore di mezz’età e non ha più le treccine come anni fa, ma con la chitarra ci sa ancora fare parecchio. La sua A Whiter Shade of Pale riesce quasi a strapparmi una lacrimuccia, guardando in su il cielo in quell’ovale perfetto circondato da muri arancioni. Si palesa il fondatore del festival Stefano Bottoni, impeccabile nella sua camicia hawaiana d’ordinanza, lo saluta, lo ringrazia, lo presenta senza parole al pubblico alzandogli il braccio perché raccolga il giusto tributo, poi se ne va. Ma chi era quello? chiede qualcuno.
C’è ancora tempo per sfrecciare veloci in bici verso il dopofestival, come a Sanremo, quest’anno al Parco Massari. Non ha gli orari infami di quello Rai con i cantanti in gara per fortuna, stanno già preparando il palco per un live che inizierà dopo mezzanotte, quando altri artisti convergeranno qui per dare vita a qualche jam session. Come capitava al Buskersgarden vent’anni fa e poi al Puedes, che noi continuavamo a chiamare Buskersgarden lo stesso. C’è una grande luna illuminata che svetta in mezzo al parco, l’attrazione gravitazionale che emana impedisce di passarci a fianco senza scattarti un selfie. Qualche coppietta è ancora appartata nel silenzio delle panchine in fondo, mentre dal cancello arrivano i primi curiosi, in anticipo.
La prima giornata è una sacrosanta prova generale ma il pubblico c’è, i cappelli sembrano riempirsi di offerte, si vedono parecchi bambini curiosi e si sentono accenti da ogni parte d’Italia. Buon segno, non può che migliorare: bentornato in città Buskers Festival.