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Anders Petersen è un fotografo svedese famoso per i suoi ritratti in bianco e nero intimi e personali. E’ il fotografo degli ultimi, degli emarginati, delle persone che la società solitamente allontana e relega in un angolo. Angoli che Anders ha ritratto con stile negli anni Settanta facendo confluire i suoi scatti nella sua opera più famosa, Café Lehmitz, un bar di Amburgo dove ha immortalato prostitute, travestiti, ubriaconi, amanti, tossicodipendenti. Progetti come questo esprimono la poetica di questo fotografo dai capelli ormai bianchissimi ma ancora pieno di curiosità, di passione, di voglia di conoscere nuove persone, interiorizzarne idee, sentimenti per entrare empaticamente in connessione con loro prima di poterle ritrarre.
Lo scorso autunno è stato in giro sui luoghi del sisma emiliano per dieci giorni. Gli scatti che ha fatto, le esperienze di questo viaggio e le storie delle persone che ha incontrato sono confluite in un libro fotografico e in una mostra, che inaugura oggi 5 ottobre 2013 alle 19 presso Slam Jam (dettagli qui). Dimenticate macerie, crepe nel terreno, gente che piange, le foto di Anders sono diverse, parlano delle persone, ne ritraggono l’anima più vera. Forse la mostra sul terremoto più insolita cui avete assistito fino ad oggi, e per questo magnifica.
Incontriamo Marco Marzocchi, fotografo per Slam Jam e vero e proprio fan dell’opera di Petersen, che ha curato con i ragazzi di Studio Blanco di Reggio Emilia una parte del percorso del fotografo svedese in Emilia, accompagnandolo sui luoghi del sisma.
Com’è nata la collaborazione con Studio Blanco per questo progetto?
Eravamo già in contatto con loro per altri progetti, fanno cose sempre molto interessanti, anche parallele all’attività di comunicazione pura di cui si occupano. Avevano deciso di fare qualcosa per il terremoto, di renderlo interessante andando oltre quello che già si era fatto e detto. Ci hanno contattato per dirci che avevano questo progetto in mente… quando ci hanno proposto Anders Petersen abbiamo subito accettato con grande trasporto.
Come mai proprio lui?
Anders Petersen come si vede dalle foto in mostra è molto particolare, nel suo tipo di fotografia è abbastanza evidente l’attitudine verso quello che va a fotografare, come affronta un reportage…
Quasi sempre street photography, ritratti degli emarginati, dei disagiati.
E’ un punto fondamentale della sua fotografia. La cosa che lo distingue maggiormente è l’approccio che ha con le persone che va a ritrarre: non è semplicemente uno scatto, per lui è un bisogno di rapportarsi con la gente. Entra in sintonia con loro, conosce le persone prima di ritrarle. E’ una sorta di private documentary. In questo caso ha girato 10 giorni per varie zone nel modenese e ferrarese nell’ottobre 2012, le tendopoli erano state tolte da poco. Abbiamo attraversato realtà molto differenti, dalle case di riposo, alle balere… L’ho accompagnato in una parte del percorso anche io, l’abbiamo guidato per alcuni luoghi dove lui non era in realtà mai stato. Era totalmente immerso nella sua dimensione e quindi fotografava un po’ tutto quello che lo colpiva.
Girava con il suo materiale da far vedere per presentarsi alle persone? Il suo modo anticonformista e di impatto nel raccontare le storie può quasi spaventare la signora terremotata che abita in campagna…
Il suo approccio alle persone faceva si che fossero ben disposte. Quando siamo andati nei bar di paese era capace di passare qualche ora con loro e fare amicizia. Tutte persone ormai frastornate da giornalisti e fotografi di ogni tipo che li avevano ritratti uno dopo l’altro nei mesi successivi al sisma, senza in realtà conoscerli davvero come ha fatto Anders. Era bello vedere la reazione delle persone al suo atteggiamento più umano. Il progetto fotografico in realtà è la sua scoperta dei luoghi e l’esperienza di stringere legami con le persone. Ogni scatto ti lascia con tante domande, con delle storie da raccontare che in parte la foto dice e in parte lascia alla tua immaginazione.
La scelta del bianco e nero serve a conferire più drammaticità alle opere di Petersen fin dagli esordi con Café Lehmitz?
Ha sempre scattato in bianco e nero, è una questione di linguaggio probabilmente. Nel bianco e nero hai la possibilità di spaziare tra i colori senza interessarti davvero al loro accostamento perché di fatto diventano un’infinità di possibili sfumature nella scala del grigio.
TO BELONG è la storia di un viaggio, un progetto pensato per confluire in un libro che racconti questa storia. E’ la sua prima esperienza di viaggio o aveva già seguito progetti simili scattando foto in più location?
Lui fa diari privati, come City diary: è il suo modo di raccontare le storie come esperienze. E’ venuto qui con uno zaino pieno di rulli ed era pronto a ritrarre i posti dove l’avremmo portato, è quasi difficile in realtà parlare di reportage. Per quello che ho visto per una questione di sua sensibilità ed emotività lui fotografa solo quello che gli smuove qualcosa, fotografando di pancia invece che con il cervello. E’ parte di un suo processo, necessario per capire cosa vuole fotografare.
A livello tecnico come fotografa Anders Petersen?
Tutto in analogico, con una macchina compatta della fine degli anni Novanta, la Contax T3. Per lui l’equipaggiamento è secondario, è un attrezzo per raccontare una storia. Il fatto che usi una macchina semplice e spartana è più pratico per approcciare le persone, è poco ingombrante, sembra meno invasivo rispetto un fotografo tradizionale. Poi c’è un grande lavoro di camera oscura per rendere affascinanti luci, contrasti e trovare la giusta resa della pellicola. I suoi scatti alla fine non sembrano usciti da una macchina così tecnicamente semplice.
Qualche aneddoto curioso sui giorni che lo hai affiancato?
La cosa interessante è che questo progetto non ha avuto risvolti economici, nessuno ci ha guadagnato nulla. E’ partito tutto dall’esigenza di fare qualcosa tutti insieme per contribuire a questo racconto fotografico e ad esempio albergatori, ristoratori gli hanno dato piena ospitalità. Lui era qui per la prima volta e la pianura padana nei primi giorni d’autunno era molto suggestiva per gli occhi di un fotografo. Ci siamo trovati a Cavezzo, lui era in un bar a prendere un caffè, intorno a noi il caos più totale, un ambiente quasi surreale per noi che viviamo in Emilia, immagino lo shock emotivo per chi viene da così lontano. Petersen è una persona davvero imprevedibile… i ragazzi che lo portavano in macchina arrivavano in ritardo perché lui li fermava ogni 100 metri per fare foto a qualunque dettaglio lo affascinava per la strada. Un pescatore lungo un canale, una coppia che si bacia su una panchina. Un fotografo ha una sua sensibilità verso un luogo, nota dettagli invisibili agli occhi di chi ci vive, che li ha sotto il naso tutti i giorni… Siamo andati in un cimitero di un paese dove le tombe erano sprofondate, un luogo di forti emozioni tanto da farlo scoppiare in lacrime, avendo interiorizzato molto il dramma che ha visto in queste terre.
Queste foto sono state messe in mostra per la prima volta in occasione di “Fotografia Europea” a Reggio Emilia, dopo Ferrara girerà altrove?
Non lo sappiamo al momento, il materiale che ha fotografato magari verrà anche usato per altri progetti, lo scopo finale era realizzare un libro, per raccontare il terremoto a suo modo, progetto che Slam Jam ha voluto sposare entusiasta perché in piena sintonia con lo stile di questo autore.
Non è la prima volta che fate mostre a Slam Jam peraltro.
Già da qualche anno proprio in questo store di via Canonica ne abbiamo ospitate alcune di grande livello. Craig Redman, che tutti ricordano per il faccione di Michelangelo Antonioni esposto in Castello, poi l’illustratore Jeremyville nel 2012… tutti artisti davvero interessanti e di fama mondiale.
Perché per Slam Jam è importante organizzare un’esposizione fotografica o artistica? Visto da fuori sembra qualcosa che va un po’ oltre le funzioni di un negozio di abbigliamento. La vostra mission è anche quella di parlare di cultura street, di arte contemporanea?
E’ la dimostrazione del fatto che alla base per Slam Jam c’è l’idea di diffondere un certo tipo di cultura fin dagli anni Ottanta, dalla street alla musica all’arte. A livello musicale abbiamo organizzato concerti anche in altre città, dj set, installazioni… è tutto un insieme di cose che poi motiva un lavoro di ricerca non solo sull’abbigliamento ma a 360 gradi sul piano estetico ed espressivo di ogni forma di arte.
Ci son già altri eventi in programma in futuro?
Tutto quello che ci stimola e che a noi piace proveremo a proporlo in futuro, e abbiamo già qualche idea che però non possiamo svelare ora. Può essere il canale per far vedere cose che normalmente una persona non nota, ma hanno un contenuto rilevante sia per noi che per i nostri clienti, per chi è affine al nostro stile e ci segue come riferimento anche culturale.