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Ci sono sere, nella profonda Ferrara, dove il cielo è nebbioso e anche Antonioni si perde più che nel deserto rosso, sere d’estate dove il concerto dietro casa aspetta proprio te, che puoi andarci a piedi fino al centro del centro città, nel cortile di quel castello suggestivo dove fare festa con vecchi e nuovi amici, felice da fare schifo, come recita la maglietta al tavolino del merch, che è l’abbreviazione di merchandising, che è la parola moderna per dire la bancarella con i gadgets, che è la parola bella per dire ciappini, ma non vendono mica la barba da talebano che adesso indossi per l’occasione dei tuoi trent’anni, che le ragazze in prima fila chissà se se li ricordano nemmeno i talebani, quelli che facevano esplodere i monumenti che coprivano i tramonti e ci siamo preoccupati tutti, mica no. Qualcuno mi ha detto che gli hai detto che ti piace suonare da queste parti dove non sei per forza un cantante ma anche un amico, un compagno del liceo, un barista, che quando hai iniziato non andavi mai oltre quei quaranta chilometri che segnano il confine con la grande Bologna, il sogno irraggiungibile di chi ce l’ha fatta, di chi è andato a vedere ogni sera le luci della centrale a turbogas ma è riuscito a raccontarle a Milano, a Torino a Beirut, mentre qualcuno faceva il cameriere, qualcuno si impiccava in garage, lasciando come ultime volontà le poesie di Vian. È riuscito a farle immaginare ad una ragazza di Catania e ad una di Trento, all’impiegato di Mondovì e al pensionato di Prato, aprendo i chakra del loro cuore, se così si può dire.
Trasformiamo questa città in un’altra cazzo di città, dicevi dieci anni fa e poi mettevi in loop le frasi con mille effetti distorti, giravi con la sportina per regalare i tuoi demo, offrivi bicchieri in plastica pieni del peggior vino del supermercato e sposavi tutti con sorrisi e cerotti usati. Oggi c’era qui il Presidente del Consiglio, uno tranquillo che se ce lo dicevano dieci anni fa che avrebbe fatto il Presidente del Consiglio avremmo riso tutti di gusto. Ha investito diciotto milioni di euro per recuperare il quartiere che va dalla Darsena a casa tua, Vasco. Diciotto milioni. Qui è tutto un cantiere, tutta una rotonda, diventa più bello e beffardo ogni giorno. La stiamo trasformando questa città, ma che fatica. Tempi presenti, casini interni, casini esterni. Il lavoro continua a non esserci per molti, andremo a cercarlo nelle grandi metropoli, diremo che a Milano si sta bene ma ci leggeranno in faccia che non è così, che è solo una scusa per rimandare, rimandare sempre. Organizziamo eventi, organizziamo concerti, progettiamo cose, conosciamo gente, siamo di aiuto a, facciamo lo stage presso, ci impratichiamo, studiamo ancora un po’, siamo negli staff, nei direttivi, negli entourage, nelle stanze dei bottoni senza le mani per premerli a fondo, nei posti dirigenziali di realtà senza alcun denaro. Apriamo partite iva, contiamo voucher, paghiamo contributi per pensioni che non vedremo. Inutile proteggersi dai migliori anni, questi Dieci sono come quelli Zero nonostante tutto, li racconteremo ai figli che non avremo?
Quanti rave sull’Enterprise, quanti chilometri macinati in furgone per raccontare il disagio della provincia e le speranze di una generazione che è partita alla ricerca di quella che chiameremo felicità e poi è pure tornata a casa con le pive nel sacco. Faremo, diremo, andremo, spariremo, torneremo. Proclami esagerati per futuri inverosimili, così finiamo per parlare di quello che è stato, ricordando il meglio prima di scoprire cos’altro ci sarà poi.
Dalle sere a sbronzarci a quelle a strafarci, fino alle sere felici e a quelle disincantate, crescendo nell’Emilia paranoica abbiamo imparato la lezione, abbiamo indossato maschere adulte come barbe, anelli e calvizie, pronti per andare avanti. Possiamo illuderci, ballare stando fermi, o semplicemente fare caso a quando siamo felici. Il sole alla fine splende sempre, anche in un ufficio pubblico: c’è un momento per rimboccarsi le maniche e tornare dai nostri esteri, recuperare quanto di bello c’è qui, costruire soprattutto un’esistenza che è fatta di piccole cose, di sguardi e sorrisi che incantano ogni giorno, di occhi verdi anche dopo i trent’anni, mia luminosa ragazza al computer in una natura morta, di mani di bimba che mi carezzano il viso e sembrano stelle marine, di una passeggiata serale all’uscita di un concerto scrutando insieme curiosi un castello che è li da centinaia di anni a fregarci con il suo rigore essenziale.
Qui dove anche le rondini si fermano il meno possibile, dove tutto mi sembra indimenticabile, è ancora il tempo di spendere tutti i soldi per avere un pianoforte in salotto come Alda Merini e suonare fino che venga mattino, quando la città si sveglia e torna a produrre, a pendolare, a studiare fuoricorso. Possano questi lampi illuminare la fine, arriverà un altro ciclone e forse, forse, ci lascerà stare.